Domenico De Masi è stato probabilmente il più noto e influente sociologo industriale italiano: docente di Sociologia del lavoro dell’Università di Roma “La Sapienza” e autore di numerosi saggi sui temi del lavoro e dei nuovi modelli sociali. Si è occupato anche di innovazione.
Secondo De Masi stiamo vivendo un’epoca di transizione: da una società industriale guidata dall’efficienza, dalla produttività e da consumi crescenti a una società post-industriale in cui a farla da protagonisti sono la creatività, l’autorealizzazione, la gestione etica e intellettuale del tempo libero.
A inizio 2022, quando ci avviavamo faticosamente verso la fine dell’epoca pandemica, lo abbiamo intervistato rivolgendogli alcune domande di ampio respiro su lavoro, post pandemia e impatto delle nuove tecnologie.
Smart working e digitalizzazione
Professore, come hanno reagito le imprese industriali alla pandemia?
Hanno reagito come ci si poteva immaginare. Quelle più intelligenti hanno reagito in modo intelligente, quelle più stupide hanno reagito in modo stupido. Le prime hanno sfruttato la situazione di emergenza a proprio vantaggio. Le faccio un esempio. Sotto casa mia ci sono due ristoranti. Uno si lamentava del fatto che c’erano meno avventori, l’altro ha spostati i tavoli all’aperto e ne ha approfittato per rifare gli arredi interni e le cucine. In sostanza ci sono due modi di vedere le cose. Lo abbiamo visto ad esempio nel caso dello Smart Working. Il primo marzo 2020 c’erano in Italia meno di 600 mila persone in Smart Working, una percentuale tra le più basse d’Europa. Questo dato fa pensare che le nostre aziende sono mediamente refrattarie alle innovazioni. Poi nei 10 giorni successivi siamo schizzati a 7 milioni di telelavoratori, dietro ai quali ci sono 70 mila responsabili del personale che probabilmente hanno frenato la transizione. Se non altro alcune imprese ne hanno approfittato per fare nuovi contratti o per rifare i layout degli uffici e ora stanno uscendo dalla pandemia con quasi la metà dei lavoratori in Smart Working. Per contro nella Pubblica Amministrazione il ministro Brunetta ha riportato tutti dentro. Dipende insomma dall’atteggiamento che si assume rispetto al cambiamento. Molte aziende hanno reagito in modo conservativo. Sotto questo aspetto l’impresa si è rivelata forse il sistema più arretrato che c’è in Italia, più della Chiesa e della Scuola. Non per nulla con lo Smart Working si sono trovate più a loro agio le università che le imprese.
Una spinta all’innovazione e alla digitalizzazione c’è comunque stata
Certo, come dicevo, le aziende più intelligenti hanno approfittato della situazione, si sono rimboccate le maniche e hanno fatto quelle cose che non avrebbero potuto fare senza la spinta della pandemia. Ad esempio hanno rinnovato gli impianti, i contratti, hanno pianificato la formazione a distanza e sperimentato con convinzione lo Smart Working. Molte altre non hanno fatto nulla di tutto questo. Dalla pandemia usciranno meglio le aziende più intelligenti. Si allargherà il gap tra le aziende capaci di fare profitto e innovazione e quelle incapaci.
È concorde nel ritenere le tecnologie digitali una leva strategica?
Certamente le tecnologie digitali sono di per sé quasi miracolose. Ma se non vengono usate o se vengono usate male a che servono? Le faccio un esempio. Ora è inutile spendere 58 miliardi per digitalizzare l’Italia se poi non utilizzeremo questa digitalizzazione. Quello che ha fatto Brunetta nella Pubblica Amministrazione non ha senso. Significa non preparare i dipendenti pubblici, che sono circa 3,2 milioni, al mondo digitale. Si stanno affermando tecnologie avanzatissime come l’Intelligenza Artificiale e nella Pubblica Amministrazione non siamo ancora all’organizzazione 2.0.
Il ruolo delle competenze
In termini di formazione e competenze cosa ci dobbiamo aspettare? Un dirigente industriale mi raccontò di avere sostenuto la formazione tecnica in più di un’assemblea di Confindustria, ricevendo molti consensi. Poi quando chiese di alzare la mano a quanti avevano figli che avevano frequentato gli istituti tecnici, non lo fece nessuno.
Intendiamoci. Gli istituti tecnici preparano professionalità importanti ma inferiori a quelle dell’ingegneria. E se una famiglia ha un “sogno” in questa direzione è quella di avere un figlio ingegnere non di avere un figlio perito tecnico. Al limite gli operai potrebbero volere un figlio perito tecnico.
Cosa ne pensa delle campagne di informazione verso le materie scientifiche come fattore di crescita economica e ammodernamento del Paese?
Trovo importantissimo che gli umanisti conoscano molta cultura scientifica e che gli scienziati conoscano molta cultura umanistica. Troverei scandaloso che un sociologo o un filosofo non conoscano il secondo principio della termodinamica. Troverei altrettanto scandaloso che un ingegnere non sappia chi è Shakespeare. Siamo in una società in cui occorre assolutamente una forte padronanza in entrambi i domini del sapere. Ricorderà quando il ministro Gelmini sosteneva che nelle università dobbiamo insegnare le 3 I: Impresa, Internet, Inglese. Un’assurdità. Noi dobbiamo insegnare la grande cultura umanistica e la grande cultura scientifica.
Resta il problema del tanto discusso “mismatch” tra domanda e offerta di lavoro, le aziende non trovano le figure che cercano…
Adriano Olivetti quando assumeva un ingegnere, lo teneva poi un anno in formazione prima di metterlo al suo posto. Dava per scontato che l’università non può formare ingegneri che servono a tutte le esigenze. Ci sono migliaia di tipi di ingegneri. L’università dà le basi per una buona conoscenza ingegneristica ma l’ultimo miglio, per conto proprio o consorziate, lo debbono fare le aziende, adattando il lavoratore alla specifica necessità dell’azienda. Gli imprenditori italiani non hanno mai fatto formazione. Pensano di dover trovare all’università i tecnici già pronti e specializzati per specifiche funzioni. O che la formazione sia solo un onere dello Stato. Inoltre per ridurre i costi sono state chiusi moltissimi centri di formazione aziendali e decine di scuole di management. Questa è un’ulteriore conferma dell’arretratezza delle imprese, che poi attraverso i media che controllano o che li supportano tendono a non fare luce su questi aspetti.
Automazione e occupazione
L’Automazione è spesso accusata di cancellare occupazione. L’avanzata delle tecnologie non sembra però influire sul numero totale di occupati. Nel medio lungo termine prevarranno i posti di lavoro cancellati o quelli creati dalle nuove tecnologie?
In Italia il tasso di occupazione è del 58% (ndr, 23 milioni di persone). In Germania è occupato il 79% delle persone in grado di lavorare. Mettiamo in chiaro una cosa. Fin dalle origini, pensiamo alla ruota, al telefono o all’automobile, le tecnologie sono nate per eliminare lavoro. Se non servono per eliminare il lavoro, specie quello più faticoso, le tecnologie non hanno ragion d’essere. Non bisogna scandalizzarsi del fatto che i computer tolgono lavoro umano. Dovrebbe significare che gli esseri umani fanno altro, hanno più tempo libero, guadagnano di più e dunque sono più produttivi. Un’ora di lavoro umano con una zappa produce una certa ricchezza, un’ora di lavoro umano con un computer ne produce molto di più. Le tecnologie servono per moltiplicare la produttività non per aumentare il carico di lavoro. Bisogna creare più tempo libero e più ricchezza per le persone
Dovremmo anche educare le persone a utilizzarlo bene questo tempo libero e a una maggiore conoscenza di sé.
Non c’è dubbio. Le dò questo dato. Nel 1901 in Italia eravamo 30 milioni e lavoravamo per 70 miliardi di ore in un anno. Nel 2019, ultimo anno prima della pandemia, eravamo 60 milioni e abbiamo lavorato 40 miliardi di ore, producendo centinaia di volte in più. Le conclusioni sono facili da tirare.
Le imprese e la politica ne sono consapevoli e si stanno attrezzando?
Se non ne sono consapevoli peggio per loro. Io non ci posso fare nulla, oltre a dirlo, a scriverlo e a insegnarlo.
Professore, lei è ottimista?
Certo. Sono ottimista e sa perché? Perché ci sono gli ingegneri che inventano di continuo macchine e tecnologie per produrre di più e lavorare di meno. Gli unici e autentici rivoluzionari del ventesimo e del ventunesimo secolo sono gli ingegneri. A ben vedere le grandi rivoluzioni del passato si sono involute e in molti casi sono tornate sui propri passi. Le uniche rivoluzioni che non sono mai tornate indietro sono quelle tecnologiche. Nella storia dell’umanità non c’è mai stata una regressione di fronte alle scoperte scientifiche e alle innovazioni tecnologiche. Viva gli ingegneri!
Chi era Domenico De Masi
Professore emerito di Sociologia del Lavoro presso l’Università di Roma “La Sapienza”, De Masi è stato Preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione nella stessa Università. Ha fondato ed è stato direttore scientifico della S3.Studium Srl. Società di studi e ricerche in scienze organizzative e della SIT, Società Italiana per il Telelavoro. Past-president nazionale dell’In/Arch, Istituto Nazionale Architettura e dell’AIF, Associazione Italiana Formatori. Tra il 1961 e il 1966 ha svolto ricerche organizzative e ha ricoperto cariche manageriali presso alcune aziende del gruppo IRI. Dal 1966 al 1979 è stato docente e dirigente al Centro Iri per lo Studio delle Funzioni Direttive Aziendali (IFAP). Dal 1980 si è dedicato esclusivamente all’insegnamento universitario, alla formazione e alla ricerca socio-organizzativa nelle maggiori imprese italiane. È membro del Comitato Etico della Fondazione Veronesi e del Comitato direttivo della rivista “Sociologia del lavoro”. È autore di numerosi libri di sociologia generale e di sociologia del lavoro, tra cui Mappa Mundi (2013); TAG (2015); Una semplice rivoluzione (2016); Lavorare gratis, lavorare tutti (2017), Lavoro 2025 (2017), Il Lavoro nel XXI secolo (2018), L’età dell’erranza (2018), Il mondo è giovane ancora (2018)
L’articolo Quando De Masi disse: “Le vere rivoluzioni? Le fanno gli ingegneri” proviene da Innovation Post.